Ciao, mi chiamo Cecilia e alcunə di voi si ricorderanno di me per alcune mie rocambolesche apparizione qua nell'Internet. Cosa m porta a riaprire un vecchio blog che non aggiornavo dal giugno 2018? Non lo so bene nemmeno io. La risposta emotiva è che mi manca scrivere e che forse non mi piace la piega che ha preso la mia persona, metteteci un po' di solitudine, della depressione stagionale – sì, anche la primavera può rendere depressə – et voilà... eccomi a scrivere sul mio preistorico blog come se la razza umana non si fosse mai tecnologicamente evoluta. La risposta seria è che: ultimamente mi sto interrogando spesso sulla fine che facendo la musica italiana, soprattutto quella che alcunə nostalgicə potranno chiamare "indie", mentre altrə statistə "itpop". E così, invece ci tediare la mia amica Manuela su Telegram o passare ore a inscenare nella mia testa un appassionante dibattito tra me e Carlo Pastore, ho deciso di mettere questa riflessione in forma di tweet. Ma si sa, una parola è troppa e 140 caratteri sono pochi, e senza accorgermene eccomi qua. Metteteci anche che casualmente l'account del blog è sempre rimasto loggato e da inguaribile romantica che crede nel destino quale sono non potevo prenderlo come un segno.
Da dove iniziare? Per farla breve, farò cominciare la mia riflessione a poche settimane fa, quando ormai l'annuncio di un molto noto e molto caro a tuttə noi festival di musica squisitamente italiana rimbalzava di chat in chat, echeggiava nell'internet come un grido dalle Alpi alle Ande si espande. Era il segnale di ripartenza che tuttə stavamo aspettando, quel fantomatico ritorno alla normalità, anche e sopratutto per la musica italiana, che si faceva desiderare. Eccoci qua, si riparte!
O "si riparte?!?!". Personalmente, a parte l'entusiasmo iniziale e una più voglia di volersi prendere bene che l'effettiva presa bene, l'hype non è salito. Strana io? Molto probabile. Morta dentro? Sicuro. Vecchia e ormai navigata per gioire come la prima volta all'ennesimo festival? Puoi dirlo forte. Eppure, dentro la mia testa sentivo una vocina debole, ma convinta, che mi sibilava alle orecchie – la stessa che bussa quando giustifichi atteggiamenti altrui, dandoti la colpa – mi sibilava alle orecchie: "il problema non sei tu". Ed effettivamente, parlandone di qua e di là, con amicə e conoscenti, un po' a malincuore, come quando torna la crush che ti piaceva, ma ormai non ti piace più, e ammetterlo a te stessə è dura: mica siamo così entusiastə. E il sentimento non è solo per il sopracitato molto noto molto caro a tuttə festival, per carità, sembra più un virus che si passa di persona in persona, di comitiva in comitiva, niente di grave, ma è lì, tacito e sornione, a non farci godere al massimo questa ripartenza della musica in Italia.
E allora chi è? Da qui una serie di finestre, porte, porte basculanti si sono aperte come pubblicità pop-up nella mia testa. Ognuna con la sua premessa, e la premessa della premessa, e una parentesi che, come un diagramma ad albero, si rigenera forse all'infinito. Appunto, una lunghissima serie di premesse per provare ad arrivare a una conclusione, una tesina, che nemmeno io ho ben chiara, ma tant'è fuori piove, instagram fa schifo, che altro dobbiamo fare?
1. C'è crisi
Che c'è crisi non devo dirvelo di certo io. Che il covid ha rivoluzionato le nostre vite è una narrazione che conosciamo a memoria come una canzone dei Nirvana ascoltata a 15 anni. Ed è inutile che vi dica quanto gli ultimi due anni hanno messo a dura prova il settore musicale. Bypassando tutte queste cose che ci siamo largamente già detti, quello che vedo, e non credo di essere l'unica, è una profonda crisi creativa. Niente di nuovo, anche mia madre lo sa che per avere buone idee non bisogna avere preoccupazioni, e questo periodo storico sicuramente non sarà ricordato come una Mezzaluna fertile per la musica.
La musica non si è fermata nemmeno dentro quattro pareti, ma ha perso gran parte della sua carica innovativa, della sua energia creativa e spontaneità – e come biasimarla. Qua e là, come timidi funghi, sono emerse nuove realtà musicali, nuovi percorsi sonori fuori dai binari – o lungo lo stesso percorso, ma con tutta la calma di guarde il panorama per farsi ispirare. Nuove artiste e artisti si sono fatti notare come una boccata d'aria fresca, ma lasceremo ai posteri l'ardua sentenza del loro valore, nel mentre io preferisco goderne come il primo sole dopo la tempesta. Tuttavia, in generale, soprattutto per chi è sopravvissuto, percepisco una forte immobilità di idee. Avete presenta la scena della morte di Artax? Che si agita nelle sabbie mobili incoraggiato da Atreyu, che più prova a salvarsi, più sprofonda su se stesso? Ecco, è proprio così che immagino l'indie in Italia in questo momento.
Giusto, perché l'ho presa alla larga, ma il punto della mia riflessione è: a che punto è la musica indie? Prima di addentrarmi in questa giungla di pensieri, faccio un ultima premessa. C'è crisi, abbiamo detto, e c'è crisi anche per tutto quella complessa macchina che è il mercato della musica – un gentle reminder che la musica non è solo arte e passione, ma un lavoro in piena regola per moltə. Non provo nemmeno a immergermi nelle complesse dinamiche di quell'abisso che è il booking e tutto ciò che riguarda, inclusi promoter, produzione, venue, ecc... Unica cosa che forse ho capito è che: se c'è una crisi economica, i prezzi saliranno, inclusi i cachet di artiste e artisti, di conseguenza aumenteranno anche i biglietti di festival e concerti. Ma non dimentichiamo che anche il pubblico non se la sta passando bene. Lo stesso pubblico che qualche anno fa pagava 40 euro per vedere dal vivo il suo beniamino, lo stesso che ha portato dalle stalle alle stelle tutto questo, fatemelo chiamare così, fenomeno dell'indie. E quindi, se i soldi scarseggiano e le finanze vanno ben gestite, abbiamo ancora voglia di spendere gli stessi 40 euro per il solito artista che è rimasto fermo al 2019? Vale ancora la pena spenderne 90 per un'esperienza musicale di certo fantastica, ma che porta sul palco gli stessi nomi degli ultimi quattro anni?
2. L'indie è morto, w l'indie
Qualcunə fissa la morte dell'indie a quando Linus mandò in onda "Cosa mi manchi a fare" di Calcutta su Radio Deejay nel 2015, altrə a quando Lo Stato Sociale è salito sul palco dell'Ariston per la sessantottesima edizione del Festival di Sanremo del 2018. C'è chi addita Tananai col suo singolo "Calcutta" per aver innescato un cortocircuito semantico e svelato quello status di popolarità nazional-popolare accettato da tuttə, ma detto ad alta voce da pochə. Oppure l'indie è morto quando Aimone Romizi ha fatto la marketta per un marchio di gelati di cui non ricordo il nome, o quando Diesagiowave ha smesso di essere influente. Io forse ho scelto di fissare il punto 0 a quando Carl Brave e Franco126 si sono sciolti, non solo per una questione romantica, ma perché la dipartita del primo ha palesato che con l'indie potevamo farci i gran soldi, alla faccia della musica, dell'attitudine lo-fi, e tuttə hanno voluto salire sul carrozzone. Probabilmente c'è un momento più iconico, ma direi che è un buon fermo immagine.
Personalmente non ritengo che l'indie sia morto, ma solo cambiato. O meglio, ha cambiato le carte in tavola della musica mainstream italiana. Mi piace pensare, e ritengo sia effettivamente così, che gli eventi non sono unidirezionali, ma accadono, si evolvono, si sviluppano o si arrestano in contemporanea. Questo per dire che se a un certo punto l'indie è diventato popolare, trasformandosi in quello che le playlist Spotify amano chiamare Itpop, non vuol dire che sia morto un certo modo di fare musica indie, che la scena indipendente è viva e vegeta, anche se non tutta sovraesposta sotto i riflettori. Per ogni Gazzelle che fa l'ennesima canzone pop, c'è da qualche parte un'anima con la sua chitarra che magari è contenta così e gli basta questo.
Se vogliamo considerarlo morto, o almeno parte di esso, mi piace pensare che sia salito nell'Olimpo del Pop per insegnare agli angeli come si fa la buona musica. Perché è questo, secondo me, il più grande lascito che l'indie ha fatto al pop nazionale. Che il fenomeno avesse la data di scadenza ben scritta sul retro, era chiaro a tuttə: come ogni trend, anche quelli musicali, soprattutto se fagocitati nella grande macchina commerciale, copiati, rielaborati, sventarti di ogni valore, decontestualizzati, riprodotti in serie, venduti, svenduti in ogni forma, salsa, bottiglia di design, alla lunga, e se spremuti troppo, perdono la loro carica innovativa, non sono più una novità, perdono fascino e lasciano spazio ad altro. Pace all'anima sua, rip.
Però gli angeli hanno imparato bene la lezione. La contaminazione ha funzionato, Sanremo ne è la prova. Il pop è diventato più fresco, scritto meglio e con produzioni decisamente migliori. Perfino l'immagine, che sempre più attinge all'"underground", ai tanto acclamati giovani, alle nuove tendenze, a creativi freschi di strada, ne è uscita ringiovanita. Quello che è successo, secondo me, è che il confine tra pop e "indipendente" si è assottigliato sempre di più. Non c'è più il cantautore indie che piace al pop, no, c'è solo un nuovo cantautore pop. E non c'è la popstar che "ruba le sonorità alla scena underground", c'è forse una famosa cantante che ha una direzione creativa migliore e ha capito cosa è fresh e cosa no. Il discorso è molto complesso, forse nemmeno io sono in grado di esprimerlo al meglio, e sicuramente non in poche righe, ma il punto è che:
3. Il pop ci piace
Blanco, i Maneskin ed Elodie ce l'hanno insegnato: il pop adesso non è reato. Anzi, spacca. Ma penso anche a Rkomi, Madame, Ariete (su cui vorrei spendere ore a parlare del suo album che, ahimè, era prevedibile, ma non augurabile) e mille altrə che ormai sono 100% pop. Ma pure chi continua ad avere, per attitudine personale o scelta stilistica, un certo appeal underground: La Rappresentante di Lista, Cosmo, Coma_Cose e altri nomi che adesso mi sfuggono, giocano dignitosamente nel campionato del pop a tutti gli effetti.
Lontani i tempi in cui il pop italiano era una landa desolata che si animava solo con i tormentoni estivi e pochi altri momenti che venivano ricordati in serate karaoke o feste in casa, oggi ci troviamo davanti ad molto validə artistə che non skippiamo su Spotify. Galeotti anche i vari talent show e il miracolo di Sanremo, ma queste sono altre storie che forse affronteremo un'altra volta.
Dunque, in un momento in cui non sembra esserci una nuova wave musicale dominante sul mercato, la trap si è consolidata da mo', l'itpop si è mescolato al pop, l'unica cosa che sembra tirare il carro degli ascolti sembra essere proprio il pop, quello dei grandi ascolti, delle classifiche e che passa anche in tv. Il punto non è che adesso smetteremo definitivamente di ascoltare l'indie – che, come dicevamo, esiste nel pieno delle sue forze anche lontano dai grandi numeri. Il punto, e non so nemmeno io che salto logico ho fatto per arrivare a questo punto, è: ha ancora senso parlare di festival indie? E ha senso parlare di festival indie che hanno biglietti altissimi? Un'ultima volta: ha senso parlare di festival indie che hanno biglietti altissimi, ma una lineup debole che ricorda il 2019 e che devono ricorrere allo streamer del momento per rendersi interessanti? Se allo stesso prezzo vado a vedermi Arca e altrə dieci artiste e artisti internazionali o Blanco dal vivo per almeno 3 volte, l'indie italiano può ancora reggere il confronto?
Adesso arriva il punto in cui provo a scrivere una conclusione convincente. Dovevamo uscirne migliori, invece mi sembra il contrario. Quello che vedo, con gli occhi più da addetta ai lavori che da pubblico, è una grande, folle corsa all'oro su un terreno ormai sterile. C'è crisi, il pubblico è cambiato, anche le tendenze, gli ascolti, la musica, eppure il mercato discografico continua a giocare secondo le regole del 2018, quando potevi fare una scorreggia in un microfono, spacciarla per underground, e avevi la nuova star del firmamento cantautorale.
Ovviamente è tutto più complesso di così. Ed è anche ovvio e giusto che nessuno vuole perdere il suo lavoro, il suo status, la sua popolarità, il suo successo o la possibilità, come altriə ne hanno goduto in passato, di avere la propria occasione per brillare. Ed è adesso che risuscitano come ex durante Mercurio Retrogrado nomi già noti, chi reinventato chi con la minestra riscaldata, pensando che il mondo si sia fermato con loro e adesso riprendere a girare con gli stessi standard di prima. Non meglio le nuove leve, che già pensano ad avere un Ufficio Stampa ancora prima di farsi una gavetta nei peggior locali di Bologna, inseguendo il sogno di approdare su Radio Deejay ancora prima di avere un ep. Sono le regole del grande mercato che ha infettato (colpa dei social? colpa di Spotify? colpa dei talent show? della droga?) anche le chitarre scordate suonate in cameretta. Perfino le realtà più piccole, quelle che pensavamo immuni al fascino del mainstream, etichette, collettivi, eccetera, agiscono puntando ai grandi numeri, per salire, anche se in ritardo, sul carrozzone del big business.
In parallelo vedo anche un'editoria debole e insicura, non più accattivante e pronta a scovare nuove realtà, indagare fenomeni, lanciare nuovi talenti incompresi o, banalmente, far conoscere anche quello che non è già conosciuto da tuttə. Spulciando i magazine, nel trattare di musica italiana la maggior parte mi sembrano barricati dietro i titoli facili, si va sul sicuro, si parla di artistə di cui parlano già tuttə, non si vuole rischiare un basso engagement sul post Instagram o un contenuto che leggeranno in 10, familiari dell'autore o autrice inclusi. Ma ricordiamoci che c'è crisi anche per l'editoria, quindi come biasimarla. E così le playlist del venerdì sono tutte uguali, spopolano gli articoli su Sanremo e sui fenomeni nati dai talent show, anche di quelli di dubbio gusto, ma, si sa, la televisione è tornata in voga come negli Anni Novanta. Perfino le piccole piattaforme di musica su Instagram, quelle che fanno le playlist per capirci, che un tempo non lontano erano aggregazione spontanea di gente con la passione per la musica e la voglia di scrivere, oggi sono tutte più organizzate della mia vita. Media partnership, sponsorship, contenuti a pagamento, advertising e markette: quelle che sembrano realtà amatoriali, sono invece piccole macchine da guerra ben progettate per vendere – e buon per loro, io a 34 anni ancora ho paura a parlare di budget per i miei lavori.
Ma non tutto il male viene per nuocere. Come direbbe il nostro amico Charles Darwin, è arrivato il momento della selezione naturale. È iniziata quella fase in cui si capisce chi resta e chi no, chi ha qualcosa da dire e chi no. Banalmente: chi è arrosto e chi fumo. Dopo il boom dell'indie, la crescita esponenziale e la conseguente inflazione dei prodotti sul mercato della musica, la bolla si è sgonfiata, grazie (!!!) anche alla stagnazione del settore musicale, e della creatività, degli ultimi anni. Gli artisti e le artiste che avevano, concedetemi il termine, del vero talento, in un modo o in un altro, sono sopravvissutə con dignità e credibilità, altrə sono meteore già dimenticate. Altrə ancora sono entrati direttamente nel campionato del Pop, chi con successo chi con imbarazzo. E ancora: vedo crescere una netta scissione (per fortuna?) tra il fu l'indie, che possiamo chiamarlo underground o scena indipendente, e il pop. Non ci sono più mezze misure, se vuoi sfondare, come artistə, etichetta o quello che vuoi, devi avere un progetto ben confezionato, curato, seguito e promosso – a prescindere dall'effettiva qualità. Se invece non hai grandi ambizioni, non ti preoccupare, ti vogliamo bene comunque, e le piccole, ma non inferiori, attenzione, realtà continueranno a esserci. E così sembra crollare anche il sistema dei festival che, da una parte presentano nomi delle playlist indie, ma tickets da Primavera Sound del popolo. E voi direte eh ma c'è la crisi è ma l'indie ormai (o ancora?) come il pop, ok, ma non sentite un rumore di vetri che si infrangono se ci pensate e il vostro cervello va in tilt?
Qual è la conclusione? Che forse non abbiamo imparato la lezione, che avremmo dovuto rallentare, invece abbiamo impennato, dopati da ansia da prestazione, ansia da ripartenza e da recuperare il tempo, i soldi, la visibilità e la normalità persi. Ma la natura fa il suo corso e svela le carte. Tornando alla scintilla che ha fatto scattare questa riflessione, i festival, il pubblico e l'indie, penso che ci troviamo all'ultimo giro di boa per arrivare alla terra ferma senza annegare, ovvero: tornare a goderci, e a fare, musica come se Calcutta non avesse mai suonato all'Arena di Verona, e vedere dove ci porta la corrente.
ps Non so bene cosa ho scritto o cosa volevo dimostrare, non ho nemmeno curato l'impaginazione, ma mi sono divertita. W la musica!
Dedicato a Noemi, Filippo e Manuela che sicuramente (spero) leggeranno.