giovedì 28 aprile 2022

L'indie è morto, lunga vita all'indie






















Ciao, mi chiamo Cecilia e alcunə di voi si ricorderanno di me per alcune mie rocambolesche apparizione qua nell'Internet. Cosa m porta a riaprire un vecchio blog che non aggiornavo dal giugno 2018? Non lo so bene nemmeno io. La risposta emotiva è che mi manca scrivere e che forse non mi piace la piega che ha preso la mia persona, metteteci un po' di solitudine, della depressione stagionale – sì, anche la primavera può rendere depressə – et voilà... eccomi a scrivere sul mio preistorico blog come se la razza umana non si fosse mai tecnologicamente evoluta. La risposta seria è che: ultimamente mi sto interrogando spesso sulla fine che facendo la musica italiana, soprattutto quella che alcunə nostalgicə potranno chiamare "indie", mentre altrə statistə "itpop". E così, invece ci tediare la mia amica Manuela su Telegram o passare ore a inscenare nella mia testa un appassionante dibattito tra me e Carlo Pastore, ho deciso di mettere questa riflessione in forma di tweet. Ma si sa, una parola è troppa e 140 caratteri sono pochi, e senza accorgermene eccomi qua. Metteteci anche che casualmente l'account del blog è sempre rimasto loggato e da inguaribile romantica che crede nel destino quale sono non potevo prenderlo come un segno. 

Da dove iniziare? Per farla breve, farò cominciare la mia riflessione a poche settimane fa, quando ormai l'annuncio di un molto noto e molto caro a tuttə noi festival di musica squisitamente italiana rimbalzava di chat in chat, echeggiava nell'internet come un grido dalle Alpi alle Ande si espande. Era il segnale di ripartenza che tuttə stavamo aspettando, quel fantomatico ritorno alla normalità, anche e sopratutto per la musica italiana, che si faceva desiderare. Eccoci qua, si riparte! 

O "si riparte?!?!". Personalmente, a parte l'entusiasmo iniziale e una più voglia di volersi prendere bene che l'effettiva presa bene, l'hype non è salito. Strana io? Molto probabile. Morta dentro? Sicuro. Vecchia e ormai navigata per gioire come la prima volta all'ennesimo festival? Puoi dirlo forte. Eppure, dentro la mia testa sentivo una vocina debole, ma convinta, che mi sibilava alle orecchie – la stessa che bussa quando giustifichi atteggiamenti altrui, dandoti la colpa – mi sibilava alle orecchie: "il problema non sei tu". Ed effettivamente, parlandone di qua e di là, con amicə e conoscenti, un po' a malincuore, come quando torna la crush che ti piaceva, ma ormai non ti piace più, e ammetterlo a te stessə è dura: mica siamo così entusiastə. E il sentimento non è solo per il sopracitato molto noto molto caro a tuttə festival, per carità, sembra più un virus che si passa di persona in persona, di comitiva in comitiva, niente di grave, ma è lì, tacito e sornione, a non farci godere al massimo questa ripartenza della musica in Italia.

E allora chi è? Da qui una serie di finestre, porte, porte basculanti si sono aperte come pubblicità pop-up nella mia testa. Ognuna con la sua premessa, e la premessa della premessa, e una parentesi che, come un diagramma ad albero, si rigenera forse all'infinito. Appunto, una lunghissima serie di premesse per provare ad arrivare a una conclusione, una tesina, che nemmeno io ho ben chiara, ma tant'è fuori piove, instagram fa schifo, che altro dobbiamo fare?














1. C'è crisi

Che c'è crisi non devo dirvelo di certo io. Che il covid ha rivoluzionato le nostre vite è una narrazione che conosciamo a memoria come una canzone dei Nirvana ascoltata a 15 anni. Ed è inutile che vi dica quanto gli ultimi due anni hanno messo a dura prova il settore musicale. Bypassando tutte queste cose che ci siamo largamente già detti, quello che vedo, e non credo di essere l'unica, è una profonda crisi creativa. Niente di nuovo, anche mia madre lo sa che per avere buone idee non bisogna avere preoccupazioni, e questo periodo storico sicuramente non sarà ricordato come una Mezzaluna fertile per la musica. 

La musica non si è fermata nemmeno dentro quattro pareti, ma ha perso gran parte della sua carica innovativa, della sua energia creativa e spontaneità – e come biasimarla. Qua e là, come timidi funghi, sono emerse nuove realtà musicali, nuovi percorsi sonori fuori dai binari – o lungo lo stesso percorso, ma con tutta la calma di guarde il panorama per farsi ispirare. Nuove artiste e artisti si sono fatti notare come una boccata d'aria fresca, ma lasceremo ai posteri l'ardua sentenza del loro valore, nel mentre io preferisco goderne come il primo sole dopo la tempesta. Tuttavia, in generale, soprattutto per chi è sopravvissuto, percepisco una forte immobilità di idee. Avete presenta la scena della morte di Artax? Che si agita nelle sabbie mobili incoraggiato da Atreyu, che più prova a salvarsi, più sprofonda su se stesso? Ecco, è proprio così che immagino l'indie in Italia in questo momento.

Giusto, perché l'ho presa alla larga, ma il punto della mia riflessione è: a che punto è la musica indie? Prima di addentrarmi in questa giungla di pensieri, faccio un ultima premessa. C'è crisi, abbiamo detto, e c'è crisi anche per tutto quella complessa macchina che è il mercato della musica – un gentle reminder che la musica non è solo arte e passione, ma un lavoro in piena regola per moltə. Non provo nemmeno a immergermi nelle complesse dinamiche di quell'abisso che è il booking e tutto ciò che riguarda, inclusi promoter, produzione, venue, ecc... Unica cosa che forse ho capito è che: se c'è una crisi economica, i prezzi saliranno, inclusi i cachet di artiste e artisti, di conseguenza aumenteranno anche i biglietti di festival e concerti. Ma non dimentichiamo che anche il pubblico non se la sta passando bene. Lo stesso pubblico che qualche anno fa pagava 40 euro per vedere dal vivo il suo beniamino, lo stesso che ha portato dalle stalle alle stelle tutto questo, fatemelo chiamare così, fenomeno dell'indie. E quindi, se i soldi scarseggiano e le finanze vanno ben gestite, abbiamo ancora voglia di spendere gli stessi 40 euro per il solito artista che è rimasto fermo al 2019? Vale ancora la pena spenderne 90 per un'esperienza musicale di certo fantastica, ma che porta sul palco gli stessi nomi degli ultimi quattro anni?


2. L'indie è morto, w l'indie

Qualcunə fissa la morte dell'indie a quando Linus mandò in onda "Cosa mi manchi a fare" di Calcutta su Radio Deejay nel 2015, altrə a quando Lo Stato Sociale è salito sul palco dell'Ariston per la sessantottesima edizione del Festival di Sanremo del 2018. C'è chi addita Tananai col suo singolo "Calcutta" per aver innescato un cortocircuito semantico e svelato quello status di popolarità nazional-popolare accettato da tuttə, ma detto ad alta voce da pochə. Oppure l'indie è morto quando Aimone Romizi ha fatto la marketta per un marchio di gelati di cui non ricordo il nome, o quando Diesagiowave ha smesso di essere influente. Io forse ho scelto di fissare il punto 0 a quando Carl Brave e Franco126 si sono sciolti, non solo per una questione romantica, ma perché la dipartita del primo ha palesato che con l'indie potevamo farci i gran soldi, alla faccia della musica, dell'attitudine lo-fi, e tuttə hanno voluto salire sul carrozzone. Probabilmente c'è un momento più iconico, ma direi che è un buon fermo immagine.

Personalmente non ritengo che l'indie sia morto, ma solo cambiato. O meglio, ha cambiato le carte in tavola della musica mainstream italiana. Mi piace pensare, e ritengo sia effettivamente così, che gli eventi non sono unidirezionali, ma accadono, si evolvono, si sviluppano o si arrestano in contemporanea. Questo per dire che se a un certo punto l'indie è diventato popolare, trasformandosi in quello che le playlist Spotify amano chiamare Itpop, non vuol dire che sia morto un certo modo di fare musica indie, che la scena indipendente è viva e vegeta, anche se non tutta sovraesposta sotto i riflettori. Per ogni Gazzelle che fa l'ennesima canzone pop, c'è da qualche parte un'anima con la sua chitarra che magari è contenta così e gli basta questo. 

Se vogliamo considerarlo morto, o almeno parte di esso, mi piace pensare che sia salito nell'Olimpo del Pop per insegnare agli angeli come si fa la buona musica. Perché è questo, secondo me, il più grande lascito che l'indie ha fatto al pop nazionale. Che il fenomeno avesse la data di scadenza ben scritta sul retro, era chiaro a tuttə: come ogni trend, anche quelli musicali, soprattutto se fagocitati nella grande macchina commerciale, copiati, rielaborati, sventarti di ogni valore, decontestualizzati, riprodotti in serie, venduti, svenduti in ogni forma, salsa, bottiglia di design, alla lunga, e se spremuti troppo, perdono la loro carica innovativa, non sono più una novità, perdono fascino e lasciano spazio ad altro. Pace all'anima sua, rip.

Però gli angeli hanno imparato bene la lezione. La contaminazione ha funzionato, Sanremo ne è la prova. Il pop è diventato più fresco, scritto meglio e con produzioni decisamente migliori. Perfino l'immagine, che sempre più attinge all'"underground", ai tanto acclamati giovani, alle nuove tendenze, a creativi freschi di strada, ne è uscita ringiovanita. Quello che è successo, secondo me, è che il confine tra pop e "indipendente" si è assottigliato sempre di più. Non c'è più il cantautore indie che piace al pop, no, c'è solo un nuovo cantautore pop. E non c'è la popstar che "ruba le sonorità alla scena underground", c'è forse una famosa cantante che ha una direzione creativa migliore e ha capito cosa è fresh e cosa no. Il discorso è molto complesso, forse nemmeno io sono in grado di esprimerlo al meglio, e sicuramente non in poche righe, ma il punto è che:


3. Il pop ci piace

Blanco, i Maneskin ed Elodie ce l'hanno insegnato: il pop adesso non è reato. Anzi, spacca. Ma penso anche a Rkomi, Madame, Ariete (su cui vorrei spendere ore a parlare del suo album che, ahimè, era prevedibile, ma non augurabile) e mille altrə che ormai sono 100% pop. Ma pure chi continua ad avere, per attitudine personale o scelta stilistica, un certo appeal underground: La Rappresentante di Lista, Cosmo, Coma_Cose e altri nomi che adesso mi sfuggono, giocano dignitosamente nel campionato del pop a tutti gli effetti. 

Lontani i tempi in cui il pop italiano era una landa desolata che si animava solo con i tormentoni estivi e pochi altri momenti che venivano ricordati in serate karaoke o feste in casa, oggi ci troviamo davanti ad molto validə artistə che non skippiamo su Spotify. Galeotti anche i vari talent show e il miracolo di Sanremo, ma queste sono altre storie che forse affronteremo un'altra volta. 

Dunque, in un momento in cui non sembra esserci una nuova wave musicale dominante sul mercato, la trap si è consolidata da mo', l'itpop si è mescolato al pop, l'unica cosa che sembra tirare il carro degli ascolti sembra essere proprio il pop, quello dei grandi ascolti, delle classifiche e che passa anche in tv. Il punto non è che adesso smetteremo definitivamente di ascoltare l'indie – che, come dicevamo, esiste nel pieno delle sue forze anche lontano dai grandi numeri. Il punto, e non so nemmeno io che salto logico ho fatto per arrivare a questo punto, è: ha ancora senso parlare di festival indie? E ha senso parlare di festival indie che hanno biglietti altissimi? Un'ultima volta: ha senso parlare di festival indie che hanno biglietti altissimi, ma una lineup debole che ricorda il 2019 e che devono ricorrere allo streamer del momento per rendersi interessanti? Se allo stesso prezzo vado a vedermi Arca e altrə dieci artiste e artisti internazionali o Blanco dal vivo per almeno 3 volte, l'indie italiano può ancora reggere il confronto?


Adesso arriva il punto in cui provo a scrivere una conclusione convincente. Dovevamo uscirne migliori, invece mi sembra il contrario. Quello che vedo, con gli occhi più da addetta ai lavori che da pubblico, è una grande, folle corsa all'oro su un terreno ormai sterile. C'è crisi, il pubblico è cambiato, anche le tendenze, gli ascolti, la musica, eppure il mercato discografico continua a giocare secondo le regole del 2018, quando potevi fare una scorreggia in un microfono, spacciarla per underground, e avevi la nuova star del firmamento cantautorale. 

Ovviamente è tutto più complesso di così. Ed è anche ovvio e giusto che nessuno vuole perdere il suo lavoro, il suo status, la sua popolarità, il suo successo o la possibilità, come altriə ne hanno goduto in passato, di avere la propria occasione per brillare. Ed è adesso che risuscitano come ex durante Mercurio Retrogrado nomi già noti, chi reinventato chi con la minestra riscaldata, pensando che il mondo si sia fermato con loro e adesso riprendere a girare con gli stessi standard di prima. Non meglio le nuove leve, che già pensano ad avere un Ufficio Stampa ancora prima di farsi una gavetta nei peggior locali di Bologna, inseguendo il sogno di approdare su Radio Deejay ancora prima di avere un ep. Sono le regole del grande mercato che ha infettato (colpa dei social? colpa di Spotify? colpa dei talent show? della droga?) anche le chitarre scordate suonate in cameretta. Perfino le realtà più piccole, quelle che pensavamo immuni al fascino del mainstream, etichette, collettivi, eccetera, agiscono puntando ai grandi numeri, per salire, anche se in ritardo, sul carrozzone del big business.

In parallelo vedo anche un'editoria debole e insicura, non più accattivante e pronta a scovare nuove realtà, indagare fenomeni, lanciare nuovi talenti incompresi o, banalmente, far conoscere anche quello che non è già conosciuto da tuttə. Spulciando i magazine, nel trattare di musica italiana la maggior parte mi sembrano barricati dietro i titoli facili, si va sul sicuro, si parla di artistə di cui parlano già tuttə, non si vuole rischiare un basso engagement sul post Instagram o un contenuto che leggeranno in 10, familiari dell'autore o autrice inclusi. Ma ricordiamoci che c'è crisi anche per l'editoria, quindi come biasimarla. E così le playlist del venerdì sono tutte uguali, spopolano gli articoli su Sanremo e sui fenomeni nati dai talent show, anche di quelli di dubbio gusto, ma, si sa, la televisione è tornata in voga come negli Anni NovantaPerfino le piccole piattaforme di musica su Instagram, quelle che fanno le playlist per capirci, che un tempo non lontano erano aggregazione spontanea di gente con la passione per la musica e la voglia di scrivere, oggi sono tutte più organizzate della mia vita. Media partnership, sponsorship, contenuti a pagamento, advertising e markette: quelle che sembrano realtà amatoriali, sono invece piccole macchine da guerra ben progettate per vendere – e buon per loro, io a 34 anni ancora ho paura a parlare di budget per i miei lavori. 

Ma non tutto il male viene per nuocere. Come direbbe il nostro amico Charles Darwin, è arrivato il momento della selezione naturale. È iniziata quella fase in cui si capisce chi resta e chi no, chi ha qualcosa da dire e chi no. Banalmente: chi è arrosto e chi fumo. Dopo il boom dell'indie, la crescita esponenziale e la conseguente inflazione dei prodotti sul mercato della musica, la bolla si è sgonfiata, grazie (!!!) anche alla stagnazione del settore musicale, e della creatività, degli ultimi anni. Gli artisti e le artiste che avevano, concedetemi il termine, del vero talento, in un modo o in un altro, sono sopravvissutə con dignità e credibilità, altrə sono meteore già dimenticate. Altrə ancora sono entrati direttamente nel campionato del Pop, chi con successo chi con imbarazzo. E ancora: vedo crescere una netta scissione (per fortuna?) tra il fu l'indie, che possiamo chiamarlo underground o scena indipendente, e il pop. Non ci sono più mezze misure, se vuoi sfondare, come artistə, etichetta o quello che vuoi, devi avere un progetto ben confezionato, curato, seguito e promosso – a prescindere dall'effettiva qualità. Se invece non hai grandi ambizioni, non ti preoccupare, ti vogliamo bene comunque, e le piccole, ma non inferiori, attenzione, realtà continueranno a esserci. E così sembra crollare anche il sistema dei festival che, da una parte presentano nomi delle playlist indie, ma tickets da Primavera Sound del popolo. E voi direte eh ma c'è la crisi è ma l'indie ormai (o ancora?) come il pop, ok, ma non sentite un rumore di vetri che si infrangono se ci pensate e il vostro cervello va in tilt? 

Qual è la conclusione? Che forse non abbiamo imparato la lezione, che avremmo dovuto rallentare, invece abbiamo impennato, dopati da ansia da prestazione, ansia da ripartenza e da recuperare il tempo, i soldi, la visibilità e la normalità persi. Ma la natura fa il suo corso e svela le carte. Tornando alla scintilla che ha fatto scattare questa riflessione, i festival, il pubblico e l'indie, penso che ci troviamo all'ultimo giro di boa per arrivare alla terra ferma senza annegare, ovvero: tornare a goderci, e a fare, musica come se Calcutta non avesse mai suonato all'Arena di Verona, e vedere dove ci porta la corrente. 


ps Non so bene cosa ho scritto o cosa volevo dimostrare, non ho nemmeno curato l'impaginazione, ma mi sono divertita. W la musica!


Dedicato a Noemi, Filippo e Manuela che sicuramente (spero) leggeranno. 

martedì 19 giugno 2018

Menswear del futuro: quale cantante italiano sfilerà alla prossima Settimana della Moda?


Che la moda corteggia la musica, e la musica non solo si lascia ammaliare, ma fa la corte a sua volta non è una novità. Che i grandi marchi della moda flirtino con musicisti di non successo non è storia nuova, anzi. E che gli stilisti, soprattutto d'oltre oceano, portino in passerella noti nomi della musica, non è , anche questa, una sorpresa. 

La Fashion Week newyorchese, ad esempio, ha visto stelle della musica vestire i panni dei modelli per alcuni brand di successo – vedi Kanye West che ha fatto sfilare Young Thug e Lil Yachty per la sua collezione YEEZY Season 3, e Skepta, modello improvvisato per Nasir Mazhar. E se vogliamo andare ancora più in là nel tempo, allora torniamo in Italia, nel giugno 1996, quando Tupac sfilò in passerella per Versace

Torniamo ai giorni nostri, al boom della tra e del rap in Italia, alla trasformazione "culturale" dell'indie, non più per una cerchia ristretta di disagiati emotivi, ma vero fenomeno musicale di portata nazionale. Questo è il panorama italiano e la moda di certo non poteva restare ferma a guardare nascere e crescere le tendenze di costume. Milano, allora, ha cavalcato la corrente e ha iniziato a coinvolgere i cantanti più amati del momento per trasformali, anche solo per pochi minuti, in modelli di successo. 

lunedì 21 maggio 2018

Non abbiamo bisogno di Enrique Iglesias – Giorgio Poi, De Leo e la musica italiana che ci fa ballare



Non sembra, ma l'estate è alle porte. E se non ve ne siete accorti, un motivo c'è. Non è colpa di questa primavera un po' altalenante, no. Non è colpa di Marzo che ha fatto schifo, di Aprile che ha fatto pure peggio o di Maggio che potrebbe fare di meglio, ma non si impegna. Non è colpa delle temperature birichine, delle piogge improvvise e degli sbalzi d'umore di questa primavera. Se non ci siamo ancora accorti che l'estate si sta avvicinando è colpa della grave mancanza di un tormentone estivo.

Nello specifico, cari lettori, non è ancora uscita una hit estiva degna del suo nome, che ci faccia sognare spiagge esotiche, balli proibiti e tutti i luoghi comuni latineggianti che un buon videoclip musicale può mettere in campo. È vero, Elettra Lamborghini, col suo singolo di debutto Pem Pem, mi aveva dato delle (false) speranze sull'inizio della stagione delle canzoni tamarre da ascoltare a tutto volume in macchina. Ma, nonostante il gran bel pezzo che la ragazza ha tirato fuori, mancano ancora i nomi dei signori dell'estate. Dov'è Sean Paul? E J Balvin? Pitbull cosa sta aspettando a tirare fuori un nuovo featuring? Ormai è come Michael Bublé per il natale: se non esce il nuovo singolo di Enrique Iglesias non è estate. 

Dunque, mentre mi tormentavo con simili elucubrazioni mentali, ascoltando in loop Pem Pem per illudermi che sì, l'estate sta arrivando, voglio crederci, ho avuto uno dei miei famosi lampi epifanici. Sento davvero la mancanza di Enrique Iglesias? Voglio davvero una nuova canzone di Alvaro Soler? Se mi guardo allo specchio, nel profondo dei miei occhi la risposta è no. E sapete perché? Perché quest'anno i tormentoni estivi li facciamo noi.

mercoledì 16 maggio 2018

Il vero punto del discorso: cosa indossa Young Signorino nel nuovo singolo "La Danza dell'Ambulanza"


Ieri forse era la giornata nazionale de "La Posta di Cecilia" e non lo sapevo, perché fin dalle prima ore della mattinata ho ricevuto un sacco di messaggi – e non mi riferisco a quelli di mia madre, che, casualmente, proprio ieri non mi ha mai scritto. 
Dicevamo, messaggi in privato di ogni tipo, dalla stramba, ma dolce richiesta di una fidanzata che voleva fare una sorpresa al suo moroso "regalandogli" un mio video in cui gli auguro buon compleanno, a quelli di conforto e supporto – è così palese che non sto molto bene in questo periodo, amici? Tuttavia, alcuni messaggi avevano come unico fil rouge il fenomeno mediatico-musicale italiano del momento: Young Signorino.

Nello specifico, gli avventurieri che mi hanno scritto a riguardo, vedendo in me l'esperta per eccellenza in Musica di Merda e Casi Umani dell'internet, sembravano ossessionati soprattutto da un unico, enorme quesito esistenziale: Young Signorino, ci è o ci fa?

mercoledì 21 marzo 2018

Analisi antropologica della Dick Pic nella chat di Snapchat

C'era una volta un social di nome Snapchat. A differenza dei suoi amici Facebook, Twitter e molti altri, Snapchat era il nuovo arrivato nel reame dei social networks e, come tutte le novità, non fu subito apprezzato e capito dal popolo. Tuttavia Snapchat non si arrese e, giorno dopo giorno, riuscì a conquistarsi la stima della gente grazie all'aiuto di filtri magici e video innovativi. 

Da quel momento, in poco tempo Snapchat diventa un social molto popolare: un luogo pacifico in cui le persone potevano essere davvero loro stesse, senza dover sforzarsi di essere impeccabili e fighe come con Instagram, o fingere intelligenza e cultura come con Facebook. Con Snapchat il popolo del Web si sentiva a suo agio, parlando a ruota libera di ogni pensiero che gli balenava nella testa, restando comodamente sul divano in pigiama. Ma soprattutto, grazie a Snapchat ogni primogenito della Generazione Y poteva realizzare il suo sogno di essere un VeeJay d MTV. 

Un giorno Instagram, il social più fighetto del reame, ingelosito dal successo di Snapchat, decise di mettere i bastoni tra le ruote al nuovo arrivato trasformandosi in una sua copia. Nonostante i vani tentativi di Snapchat di tenersi al passo con la concorrenza, in poco tempo Instagram conquistò tutto il popolo del Web, che poco alla volta si dimenticò del povero Snapchat come ci si dimentica del primo fidanzatino delle elementari. 

Come una meteora musicale, che per brevi, ma intensi istanti ha brillato nei cuori della gente, così Snapchat ha visto, alla fine dei giochi, il suo declino. Che ne è rimasto oggi dell'ex social più utilizzato dai giovanissimi? Dopo un breve periodo di transizione e confusione, sembra essersi arenato nella peggiore versione di sé: la sex chat.

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